Secondo il codice civile, il proprietario di un immobile può agire per far dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio. Se sussistono anche turbative o molestie, il proprietario può chiedere che se ne ordini la cessazione, oltre la condanna al risarcimento del danno (art. 949 c.c.).
Con l’actio negatoria servitutis, quindi, il proprietario, ai sensi dell’art. 949 c.c., può agire per far dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio.
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Si tratta di un’azione che presuppone che il proprietario abbia la disponibilità anche materiale della cosa (o comunque che non vi sia un terzo che ne disponga invito domino e dal quale doverla recuperare) e lamenti delle “ingerenze” o “interferenze”, in fatto e/o diritto, da parte di terzi non aventi titolo legittimante e che incidono sul pacifico godimento del diritto di proprietà.
L’azione negatoria, quindi, non ha una finalità recuperatoria, né mira ad ottenere una condanna alla “riconsegna”. Se sussistono anche turbative o molestie, il proprietario può chiedere che se ne ordini la cessazione, oltre la condanna al risarcimento del danno.
Sotto il profilo probatorio, l’attore deve dimostrare, con ogni mezzo ed anche in via presuntiva, di possedere il fondo in forza di un titolo valido.
Al convenuto incombe l’onere di provare l’esistenza del diritto a lui spettante (in virtù di un rapporto di natura obbligatoria o reale) di compiere l’attività lamentata come lesiva dall’attore.
Questi principi devono essere tenuti in considerazione, anche in ambito condominiale, quando un condomino agisce chiedendo accertarsi l’inesistenza di diritti dei convenuti su un bene di cui l’attore dichiara di essere proprietario esclusivo. La questione è stata affrontata dalla Cassazione nella recente decisione 1905 del 23 gennaio 2022.
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La vicenda
Un condomino si rivolgeva al Tribunale chiedendo l’accertamento dell’inesistenza del diritto di servitù di passo carrabile in capo ai convenuti (tutti proprietari di appartamenti e/o cantine ubicate nello stesso caseggiato) sulla porzione di corte, della quale l’attore dichiarava di essere l’esclusivo proprietario.
Il Tribunale dava ragione ai convenuti che avevano messo in rilievo l’invalidità del titolo di acquisto prodotto dall’attore, costituito da una scrittura privata autenticata con la quale, i danti causa dello stesso attore non avevano indicato il loro titolo di provenienza, affermando solo di essere divenuti proprietari della corte in questione per averne comunque avuto, “loro e prima di loro i giusti loro danti causa”, “il possesso pubblico pacifico, continuo e ininterrotto per oltre 20 anni”.
Secondo il Tribunale, quindi, il diritto vantato dai danti causa dell’attore, acquistato per usucapione, non era ancora stato giudizialmente accertato. In altre parole i venditori dell’attore avevano dichiarato di aver usucapito l’area cortilizia in questione ma nessuna sentenza aveva accertato l’avvenuto usucapione del bene.
Anche i giudici di secondo grado ritenevano che la detta scrittura privata non fosse idonea, come affermato dal Tribunale, a dimostrare il diritto di proprietà dell’attore sul fondo in questione. Secondo la Corte di Appello, infatti, l’acquisto della proprietà di un immobile per effetto di usucapione, per essere fatto valere e formare oggetto di un contratto di vendita, dev’essere dapprima accertato e dichiarato nei modi di legge.
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La decisione della Suprema Corte
La Corte di Cassazione ha dato ragione all’attore.
Nell’actio negatoria servitutis, infatti, la parte che agisce in giudizio per far accertare l’inesistenza dell’altrui diritto di servitù su un fondo del quale affermi di essere il proprietario non ha l’onere di fornire, come nell’azione di revindica (e cioè dimostrando il suo titolo di acquisto e quello dei suoi danti causa fino ad un acquisto a titolo originario), la prova rigorosa della proprietà del fondo servente (Cass. civ., sez. II, 15/10/2014, n. 21851). Del resto l’azione non mira necessariamente all’accertamento dell’esistenza della titolarità della proprietà del bene (il cortile) ma all’ottenimento della cessazione dell’attività lesiva (il passaggio sul cortile).
In ogni caso – come hanno evidenziato i giudici supremi – il contratto di compravendita con cui viene trasferito il diritto di proprietà di un immobile sul quale il venditore abbia esercitato il possesso per un tempo sufficiente al compimento dell’usucapione non è viziato dalla nullità, ancorché l’acquisto della proprietà da parte sua non sia stato giudizialmente accertato in contraddittorio con il precedente proprietario: e ciò in quanto l’acquisto per usucapione avviene ipso iure per il semplice fatto del possesso protratto per venti anni e la sentenza con cui viene pronunciato l’acquisto per usucapione del diritto di servitù ha natura meramente dichiarativa e non costitutiva del diritto stesso.
La scrittura privata prodotta in giudizio dall’attore, quindi, era idonea a dimostrarne la proprietà sull’area cortilizia in questione (mentre i convenuti non hanno provato l’esistenza del diritto).
Articolo di Giuseppe Bordolli, consulente legale condominialista
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Lisa De Simone
Esperta in materia legislativa, si occupa di disposizioni normative e di giurisprudenza di interesse per il cittadino. Collabora da anni con Maggioli Editore, curando alcune rubriche on line di informazione quotidiana con particolare attenzione alle sentenze della Corte di Cassazione in materia fiscale e condominiale.
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